La laguna di Venezia
La Laguna di Venezia
Un tappeto d’azzurro attorno ai merletti della città
Aveva ragione il protagonista di Morte a Venezia: arrivare in città per ferrovia è come entrare in uno splendido palazzo attraverso la porta di servizio. Il vero ingresso è dal mare, magari a bordo del ripristinato Burchiello, che evoca fantasmi settecenteschi lungo le bianche ville della Riviera di Brenta.
Se poi si desidera godere in visione unitaria il tremolante spettacolo del lago marino, lungo una cinquantina di chilometri, largo più o meno dagli 8 ai 14, vi consigliamo l’aereo da turismo, di quelli così piccoli che i piccioni di Piazza S. Marco li credono quasi dei fratelli maggiori. In mancanza di questo, basta salire sul Campanile di S. Marco e si avrà la stessa impressione di meraviglia di Wolfgang Goethe che di lassù, il 30 settembre 1786, vide per la prima volta il mare.
Ci sono due lagune, paesaggisticamente parlando. Quella delle giornate inondate di sole, con le barene — le strisce sabbiose che vengono sommerse solo dall’acqua alta — rivestite di fiori lilla, e le isole che spuntano sull’azzurro dell’acqua, “quasi evocate da una fata” , come diceva Lord Byron.
È un paesaggio piatto, per linee orizzontali, dominato da una calma che induce a soavi meditazioni, da un silenzio arcano e tuttavia familiare, perché la Laguna è una porzione di mare a misura d’uomo, per usare un’espressione di moda, un “mare-pocket”, su cui galleggiano le sorelle minori di Venezia: Murano, soffiatrice di vetri; Burano, ricamatrice di trine; Mazzorbo e S. Erasmo; Torcello, col suo campanile visibile da tutta l a Laguna; S. Francesco del Deserto, popolata da frati silenziosi e da neri cipressi.
Poi c’è la Laguna autunnale, quando tenui garze di nebbia si posano sulle barene, sulle chiese solitarie, sui lidi evanescenti, a medicare le scottature del solleone d’agosto, e i buongustai di paesaggistica sostengono che questa Laguna di peltro, battuta dallo scirocco, è la più bella, con gli uccelli che guizzano tra cielo e mare, e i barcaioli che remano all’impiedi, in avanti, stile veneto, per vedere il fondale ed evitare le secche, in questa ovattata meraviglia del Creato.
Questa Laguna, salvezza e incubo dei Veneziani, è figlia d’un millenario e provvisorio compromesso geografico tra i fiumi e il mare. I primi trasportano materiali alla foce, il secondo mediante l a marea tenta di penetrare in essi. Due volte al giorno, attraverso le bocche di porto del cordone litoraneo, entra in Laguna il flusso del mare che si gonfia, si alza, e due volte si abbassa e si ritrae.
Purtroppo, l’equilibrio mare-fiumi non ha affatto il carattere dell’immutabilità, tende a spezzarsi, a favore di uno dei contendenti: o vince il fiume, interrando; o il mare, sommergendo.
Per secoli i Veneziani, impegnati su due fronti idraulici, si batterono perché nessuno dei due prevalesse, e diventasse irrimediabile cagione di rovina e di morte quello stesso provvidenziale elemento che era stato agli inizi strumento della loro salvezza fisica, e poi del lento ascendere verso il primato politico e la gloria della Repubblica.
Sulle acque della Laguna infatti i rivieraschi del Veneto trovarono fortunoso rifugio, nel V e VI secolo, mentre calavano i barbari dal nord. Narra la leggenda che gli abitanti di Altino corsero in piazza, piangendo e pregando, ed ecco comparire in cielo colombi e altri uccelli, recanti nel becco i loro nati. Volavano verso il mare, come per indicare che in quel la direzione avrebbero trovato salvezza.
Un gruppo di Altinati parti verso l’Istria, un altro si diresse a Ravenna, un terzo sostò ancora alcuni giorni, macerandosi con ulteriori digiuni; alla fine udirono una voce dal cielo: « Salite sulla torre e guardate ». Salirono e videro l’isoletta di Torcello, dove subito si trasferirono, assieme al vescovo e alle reliquie dei corpi dei santi.
Altino, floridissima sotto l’imperatore Tiberio, adesso è interrata, la sua laguna è scomparsa. Lentamente, la terraferma avanza, e in maggior misura nella Laguna superiore che in quella inferiore, e tale avanzata preoccupa da sempre i Veneziani, fin dal tempo di Marco Cornaro, “savio” alle acque nel 1457. Con sua addolorata sorpresa, fatti alcuni calcoli scopri che Aquileia, ex base navale di Augusto, distava ormai dal mare circa 13 km, e Concordia 25. Se non si provvedeva, anche Venezia rischiava la stessa fine.
L’equilibrio fiumi-mare risultava paurosamente rotto, a vantaggio dei primi: bisogna va espellerli dalla Laguna, a cominciare dal Brenta, e allontanare dai suoi margini i confinanti maleducati, per esempio il Piave a nord, che scaricava in Laguna, come in una pattumiera, il torbido delle sue periodiche alluvioni; e a sud il Po, che nel 1152 aveva rotto a Ficarolo aprendo un nuovo ramo, detto appunto Po di Venezia, che sfiorava pericolosamente la Laguna.
Nel 1501 si crearono tre “savi ” alle acque, nel 1505 fu istituito l’autorevole Magistrato alle Acque, sugli stalli del quale si leggeva, in solenne latino, che Venezia aquis prò muro munitur, è difesa, cioè, dalle acque in luogo delle mura, e chiunque osi, in qualsiasi modo, turbarne l’equilibrio hostis pa trìae iudicetur, sia considerato nemico della patria, e colpito con pena non inferiore a quella che tocca a chi osa violare sanctos muros patriae, le sante mura della patria.
Essendo una tecnocrazia fondata sull’efficienza, la Repubblica affidò i lavori a ingegneri di provata capacità, vietando a tutti, dilettanti e curiosi, di “ingerirsi, di parlare o scrivere” in questa materia, sotto pena di un’ammenda di cento ducati (maggio 1505). Quattro anni prima, un decreto aveva minacciato, ai danneggiatori degli argini, il taglio della mano destra, l’estrazione di un occhio e la confisca dei beni.
Venezia non scherzava. I fiumi, d’altra parte, non scherzavano con lei. Il diboscamento della Pianura Padana aveva aumentato il trasporto dei fiumi e la Laguna rischiava di morire degradata in paludi e pantani.
Ne l 1507, il Brenta venne deviato nel bacino di Chioggia; nel 1550, poi, fu portato più a sud, nella Laguna di Bròndolo. L’onere dei lavori fu diviso fra i sudditi della Serenissima.
Nel 1555 l’idraulico Cristoforo Sabbadino, uno dei più grandi della Repubblica, iniziò la deviazione del Po di Venezia, terminata mezzo secolo dopo col taglio di Porto Viro, che spostava il pericolo verso sud, verso le campagne ferraresi. Allontanato anche il Piave, con lavori durati un secolo, Venezia tirò un respiro di sollievo. Ma per poco.
La vittoria sui fiumi gonfiò il pericolo opposto, l’arroganza del mare, diventato più minaccioso, perché non trovava più, a controbilanciarlo, i corsi d’acqua sfrattati dalla Laguna. Dolce e salata, provenga dalla terra ferma o dall’Adriatico, l’acqua bifronte è il fatale elemento della storia veneziana, insieme salvezza e incubo.
Cosi, Venezia, verso la metà del Settecento, eresse, a difesa contro le mareggiate, i ciclopici “murazzi” , 4.000 m sul Litorale di Pellestrina, 1.200 su quello di Sottomarina; e fu il suo canto del cigno: i lavori, infatti, vennero terminati nel 1787, dieci anni prima che il trattato di Campo formido segnasse la fine della libertà della Repubblica.
Adesso ne è in pericolo la vita. I poeti hanno visto nella Laguna una prateria marina; gli uomini d’affari una ghiotta superficie da imbonire, una sterminata area fabbricabile. Con la scusa del progresso, le hanno rubato spazio, ne hanno sconvolto il già precario equilibrio.
Negli ultimi decenni la marea s’è fatta più turgida, perché quello che non va in larghezza va in altezza, come già si pensava nel Cinquecento, e, in certe giornate, soltanto i piccioni possono attraversare Piazza S. Marco, senza bagnarsi le estremità. Si sa che durante il plenilunio e il novilunio la marea tocca le punte più alte, un’ampiezza media di 70 cm, che può arrivare a 2 m, se frustata dallo scirocco.
Aggiungiamo il lento abbassamento del suolo, l’innalzamento del livello marino e i canali scavati dall’uomo, per accogliere in Laguna le navi di grossissimo tonnellaggio. Questi canali sono accusati di aver ag gravato l a pericolosità delle maree.
Nel plenilunio e nel novilunio 370 milioni di metri cubi d’acqua entrano, ogni dodici ore, nel catino lagunare, ma questa massa trova un opportuno ostacolo nel reticolo di rii che, partendo dalle bocche dei porti di Lido, di Malamocco e di Chioggia, s’intrecciano per uno sviluppo complessivo di circa 800 km, diventando sempre più stretti man mano che si avvicinano alla gronda lagunare.
Sono essi che, per buona sorte, frenano la velocità di propagazione della marea la quale entra in Laguna quasi limpida, un po’ più calda d’inverno, un po’ più fredda d’estate, e nel riflusso torna al mare intorbidita dai rifiuti e dai liquami.
Due volte al giorno la marea fa da netturbino, spurgando la Laguna con energici lavacri. Fatica erculea, alla lettera, se è vero che Ercole — mito e natura, come sempre, si rispecchiano —, dovendo ripulire nello spazio d’un giorno le puzzolenti stalle di Augia e i suoi armenti ammassati in nauseabonda sporcizia, deviò un fiume e con la corrente disinfestò l’immondezzaio.
Purtroppo, lo scavo dei canali artificiali ha accelerato l a velocità della marea e accresciuto l a potenza d’urto, almeno secondo l’opinione di qualificati esperti, i quali temono che un brutto giorno la marea, trasformatasi in becchino, assieme ai rifiuti della città, porti via anche Venezia.