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Modica I Maestri cioccolatieri Aztechi di Sicilia

Modica & cioccolato

Dal 1746, i maestri cioccolatieri impiegano tecniche antiche, messe a punto dalla gloriosa civiltà precolombiana e arrivate con gli spagnoli.
Risultato? Un prodotto di successo, che ha conquistato il mondo

di Fabio Sebastiano Tana foto di Toni Spagone/Realy Easy Star Rivista MERIDIANI

Foto presentazione  by Canva

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Sono molte, al mondo, le città che vantano (magari a buon diritto) meriti speciali quando si parla di cioccolato. Ma a Modica, “a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archetipo, all’assoluto, e che il cioccolato altrove prodotto – sia pure il più celebrato – ne sia l’adulterazione, la corruzione”. Così scriveva Leonardo Sciasela, che molto amava la terra iblea, ed è facile vedervi un pizzico di partigianeria. Tuttavia qualche valida pezza di appoggio all’affermazione di Sciasela c’è.

In primo luogo il cioccolato di Modica – così ruvido, così granuloso, così bruno, in una parola così antico – assicura il tragitto più breve e meno invasivo fra l’elemento di origine, il cacao, e il prodotto finale. Il cioccolato di Modica, oggi identificabile anche attraverso un preciso disciplinare che dovrebbe consentire di ricevere la qualifica Igp (Indicazione geografica protetta), nasce esclusivamente da massa di cacao che non sia stata privata del burro e non abbia ricevuto trattamenti industriali.

Si aggiungono solo zucchero e vaniglia o cannella, talvolta il peperoncino e aromi naturali locali, dal carrube agli agrumi, fino ai fiori di gelsomino, connubio sperimentato per Cosimo HI de’ Medici e ora riesumato dall’Antica Dolceria Bonajuto. Mai grassi o dolcificanti. E soprattutto senza ricorso al “concaggio “, la lunga raffinazione fatta a macchina a un’ottantina di gradi, inventata in Svizzera nell’Ottocento, che stempera l’acidità, produce nuovi aromi e rende la pasta fluida e omogenea. Ciò che al cioccolato di Modica manca.

Le caratteristiche della massa di cacao invece, proprio per i metodi medicarli di produzione, permangono pressoché inalterate. Secondo gli studi scientifici, pare che nulla meglio dei flavonoidi preservi dalle malattie cardiovascolari e le fave di cacao sono eccezionalmente ricche di flavanoli. Che sono termolabili. Quindi il cioccolato fondente lavorato a basse temperature come quello di Modica (massimo 40 gradi) contiene più alte quantità del potente antiossidante.

Ben venga allora l’idea – lanciata dal Consorzio di tutela nato nel 2003 e che raccoglie una ventina di produttori – di inserire nell’etichetta quantità e funzione dei flavanoli presenti nel prodotto.

Insomma, Modica non è una delle tante patrie del cioccolato, ma qualcosa di speciale. E chiunque può respirarlo, camminando per i vicoli scoscesi e per il corso Umberto I, la strada dove confluisce l’intera vita cittadina e sulla quale si affacciano alcune delle cioccolaterie più note. Poi c’è il contesto: le architetture barocche delle chiese e dei palazzi; la conformazione urbanistica rupestre, dove la pietra delle case e delle scalinate si trasforma in uno scenario da presepe, soprattutto quando al tramonto si accendono i lampioni e l’ocra meridiano trascolora. E la poesia che circonda la casa natale di Salvatore Quasimodo, Nobel per la letteratura 1959, dove una targa ricorda i tre nostalgici, meravigliosi versi di “Ed è subito sera”.

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Al cioccolato di Modica

è stato assegnato anche un anno di nascita: il 1746. Risale infatti ad allora una fattura che dimostra la presenza sul posto di artigiani cioccolatieri. Modica si era appena ripresa dal disastroso terremoto del 1693 e dagli sconvolgimenti politici che avevano accompagnato il trattato di Utrecht del 1713, con cui la Sicilia era passata ai Savoia.

Era ricca abbastanza per trastullarsi con qualche vizio: il cioccolato, sorbito in tazza, diventò così uno status symbol da esibire nei salotti della feudalità ancora dominante. La città si andava vestendo con lo sfarzo del barocco. Le principali chiese, e soprattutto San Giorgio e San Pietro, in perenne conflitto fra loro, non si affacciano su una piazza, ma a ridosso di scenografiche scalinate.

E poi i palazzi nobiliari, costruiti con la stessa pietra dorata locale, e i monasteri. Proprio in questi ultimi è nata l’arte pasticcera, che ha contribuito a cementare l’alleanza fra Chiesa e feudalità, con le monache addette a preparare le delizie che gli aristocratici erano chiamati a gustare. Gola e preghiera, come suggerisce l’etno-antropologa Grazia Dormiente. Anche se non è mancato qualche incidente di percorso.

Un vescovo stabilì che non andava bene che ai frati confessori, specialmente se in trasferta nei conventi femminili, venisse offerto il cioccolato, antitetico all’idea di penitenza e afrodisiaco. E si protrasse a lungo la polemica sulla liceità del cioccolato in tempo di quaresima fra domenicani (contrari) e gesuiti (possibilisti). Era da proibire come cibo, ma sciolto nell’acqua, come si usava allora, andava assimilato ai liquidi che, come il vino, erano sempre consentiti.

Dai monasteri l’arte passò ai maestri cioccolatieri, si perfezionò e in qualche modo si codificò nella definizione delle materie prime e degli strumenti. Elemento centrale era la vaiata, una pietra ricurva che veniva riscaldata e dove, con un mattarello di pietra (il pistoni), i semi di cacao macinati venivano mescolati allo zucchero e alle spezie.

Allora come oggi – anche se ormai la vaiata è stata sostituita da macchine impastatrici – la lavorazione è “a freddo” senza aggiunta di burro di cacao e/o emulsionanti come la lecitina; lo zucchero così non si decompone e resta ben percettibile al palato. Al Dammusu ro àucculattaru, un laboratorio dove sono stati utilizzati gli attrezzi di un tempo, chiunque può osservare un maestro cioccolatiere in azione.

Il Dammusu è il fiore all’occhiello del Museo del cioccolato, inaugurato nel 2014 in un’ala del Palazzo della Cultura. Si compone di varie sezioni, alcune semplicemente a effetto (come una sorta di Minitalia di cioccolato e una sala delle sculture), altre più interessanti dal punto di vista documentario e bibliografico, come i pannelli che riproducono le carte dei Grimaldi (1746-1915), la più blasonata delle famiglie medicane e forse anche la più golosa.

Basta vedere come, a fine Settecento, Michele non badasse a spese per il cioccolato: dai registri contabili risultano uscite annue di 20-30 onze, paragonabili a 15-25mila euro attuali.

Poi il cioccolato, sempre nella sua forma liquida, cominciò a essere consumato anche dalla gente comune e il caffè finì col sostituire il salotto come luogo di incontro, di scambio di opinioni e anche di degustazione. Oggi di quell’epoca resta solo il ricordo, anche attraverso locandine in stile Belle Époque e fotografie colorate a mano del caffè Orientale, un tempo il più prestigioso.

Nell’Ottocento è l’arretratezza strutturale della Sicilia a impedire il passaggio alla grande impresa industriale. Con il tempo però matura la convinzione che quel peccato originale abbia risvolti positivi e la tradizione, anziché una palla al piede, si rivela un valore aggiunto. Due i momenti di svolta. Gli anni Sessanta, quando vengono abbandonati i più anacronistici metodi di lavorazione, e i Novanta.

Dice Ignazio lacono, maestro cioccolatiere che mosse i primi passi al mitico Orientale e ora è proprietario del Caffè dell’Arte: «In quegli anni il turismo cambia totalmente volto, forse anche grazie a Montalbano, e la gente arriva a Modica non solo per il barocco, ma anche per il cioccolato».

Risalire alla storia, anzi alla preistoria del cioccolato (come la definisce Pierpaolo Ruta, ultimo erede di un’altra delle poche autentiche dinastie di cioccolatieri, quella dei Bonajuto), diventa un punto di partenza per conquistare fette di mercato. Negli ultimi trent’anni l’Antica Dolceria Bonajuto ha saputo moltiplicare la sua produzione: oggi, spiega Ruta, prepara circa 800mila barrette l’anno (su una produzione totale a Modica che si aggira intorno ai 9 milioni di barrette). Metà per il punto vendita nel centro della cittadina, l’altra metà per il resto d’Italia (40 per cento) e per l’estero (10 per cento), soprattutto Usa, Giappone, Australia e Gran Bretagna.

Più ridotta è la produzione

targata Caffè dell’Arte, che si aggira sulle 600-700 barrette al giorno. Anche in questo caso, spiega lacono, la maggior parte viene venduta in loco, ma ormai l’export è consolidato, specialmente verso Giappone e California. Il turismo assicura una buona domanda e i mercati esteri sono ricettivi. Per di più il cioccolato riscuote i favori di nicchie in continua crescita, i vegani per esempio, ammaliati dalla garanzia della mancanza di latte, e gli enologi, alla ricerca del giusto abbinamento vino-cioccolato.

Che il vento tiri nella giusta direzione lo ha dimostrato l’Expo di Milano, afferma Nino Scivoletto, direttore del Consorzio di tutela. «È stata una sorprendente performance e ci attendiamo un effetto moltiplicatore: Modica era presente insieme con Torino e Perugia, ma le nostre vendite, da sole, hanno rappresentato il 46 per cento del totale».

C’è però un problema: i produttori, grandi o piccoli, sono troppi. «Molti non sono veramente del mestiere e i loro prodotti sono scadenti, tali talvolta da screditare il nostro cioccolato», dice ancora lacono. L’Igp, con tutto l’apparato di regole e controlli che l’accompagna, potrebbe ovviare a questo inconveniente, ma è difficile dire se e quando arriverà il riconoscimento.

Nell’attesa, allora, ci si abbandoni pure a quella poesia che c’è anche, come ha detto Vittorio Sgarbi, “nella produzione di dolci e cioccolate su ricette antiche con sapori insperati”, ma il visitatore faccia attenzione a trovare il posto giusto in questa “città grande e spaziosa e insieme intima e segreta”.

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