Cavalli celebri in Italia
In ogni epoca il cavallo è stato il più fedele servitore dell’uomo e il suo più valido collaboratore in tutte le imprese. Ha con diviso con lui i pericoli, lo ha aiutato nelle più difficili contingenze, si è reso meritevole della massima considerazione cattivandosene il più delle volte l’affetto.
Una volta erano celebri i cavalli delle battaglie, da « Bucefalo » a « Incitatus », a « Marengo ». Tre nomi che comprendono venti secoli di storia ricordando tre imperatori di Paesi ed epoche diverse: Alessandro Magno, Caligola, Napoleone.
Oggi la fama di un cavallo è legata soltanto alle piste sportive. Decine di galoppatori, di trottatori, di cavalli da concorso ippico o da completo hanno entusiasmato folle di appassionati e la loro fama è volata per il mondo attraverso i grossi titoli dei giornali, la radio, la televisione.
Articolo da Cavalli ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI NOVARA
Parleremo ora degli equini eccezionali, che anche l’Italia possiede come ogni altra nazione.
Mentre in Inghilterra la passione per i cavalli e per le corse è una tradizione antica (basta pensare che in Gran Bretagna si correva già nel XVII secolo), in Italia si ebbero riunioni regolari negli ippodromi di Napoli e Firenze nel 1837, a Milano nel 1842, a Torino nel 1857.
L’anzianità delle corse in Italia ha quindi superato di poco il secolo. In questi anni molti sono stati i cavalli cari al cuore degli Italiani: citeremo «Apelle», «Ortello», «Donatello», «Nearco», «Bellini», «Tenerani», «Ribot», «Molvedo»… e molti altri.
«Ortello» diede agli appassionati la gioia di una vittoria all’estero in una corsa di grande prestigio, il Prix de l’Arc de Triomphe a Parigi, dopo essere passato imbattuto attraverso tutte le grandi prove italiane. Era un cavallo freddo, che superava gli altri cavalli solo quando era energicamente montato, per cui i suoi ammiratori dovevano trattenere il fiato fino alla fine della corsa. Fu anche ottimo riproduttore e molti suoi discendenti furono vincitori di gran premi.
«Nearco», nato nel 1935 nelle scuderie di Federico Tesio, fu forse il più grande cavallo italiano, paragonabile solo a «Ribot». Anche coloro che non si occupano di ippica conoscono di fama questo fenomenale galoppatore che non fu mai battuto. Nella sua straordinaria carriera corse 14 volte.
A due anni, 7 corse, 7 vittorie, tra cui quattro classiche: il Criterium Nazionale, il Gran Criterium, il Premio Tevere e il Premio Chiusura, ottenendo un quadruplo che nessun altro cavallo è poi riuscito a conseguire.
A tre anni fece il quintuplo delle classiche italiane di primavera: vinse, oltre che il Premio del Ministero a Pisa, il Parioli, l’Emanuele Filiberto, il Derby, il Premio d’Italia e il Gran Premio di Milano. Il 26 giugno 1938 disputò l’ultima corsa a Long champ nel Grand Prix di Parigi, battendo i vincitori del Derby francese e inglese.
Dopo questa vittoria fu acquistato da un allevatore britannico per 60 000 sterline come riproduttore e nella nuova veste ha dimostrato la sua grande qualità generando numerosi vincitori classici. Insieme all’inglese «Hyperion» può essere ritenuto uno dei pilastri dell’allevamento mondiale degli ultimi trent’anni.
«Ribot» nacque nel 1952 nelle scuderie di Tesio dove 17 anni prima aveva visto la luce il grande «Nearco». Di questo grande campione si è molto scritto su giornali e riviste, ed è stato discusso lungamente se esso fosse da ritenersi superiore o no al suo compagno di allevamento. È difficile paragonare due Purosangue così distanti negli anni.
Si può solo dire, senza voler dare giudizi, che «Ribot» ha il vantaggio di aver vinto tre grandi corse all’estero invece di una (l’Arc de Triomphe nel 1955 e nel 1956 e le King George VI and Queen Elizabeth Stakes, sempre nel 1956), e che ha battuto varie volte anche cavalli anziani mentre «Nearco», nel Grand Prix di Parigi, ha incontrato soltanto coetanei.
A parità di valore atletico «Ribot» batteva gli altri cavalli per la sua enorme capacità toracica che gli permetteva di aumentare l’andatura e lasciare indietro di molte lunghezze gli avversari ormai senza fiato. Imbattuto nelle 16 corse fatte, collaudato in tre nazioni differenti, vincitore dei campioni inglesi e francesi per due anni di seguito, con l’aggiunta di qualche americano nell’Arc de Triomphe, è stato uno dei più grandi cavalli della storia.
Quando passò in allevamento si dimostrò il più grande stallone allevato in Europa in tempi recenti. Tra i suoi figli vi sono due vincitori dell’Arc de Triomphe: «Molvedo» e «Prince Royal II» e innumerevoli cavalli di grandissima qualità, vincitori di classiche. «Ribot» e «Ballymoss» sono i due unici cavalli vincitori delle King George and Queen Elizabeth Stakes che abbiano dato figli vincitori dello stesso premio.
L’Italia è il Paese dove si ritiene che si disputassero le prime corse al trotto di una certa regolarità. Documenti provano che già nel 1808 si organizzavano a Padova corse di cavalli attaccati alle «padovanelle», sedioli pesantissimi, mentre negli Stati Uniti, per esempio, fino al 1815 le leggi proibivano le corse come cosa immorale.
Si correva, in Italia, e c’era molta passione per questo sport, ma tutto era fatto un po’ all’insegna del dilettantismo. Si correva sulle strade di molte città e paesi, soprattutto dell’Emilia e del Veneto, in occasione delle fiere. Non vi erano ippodromi, non vi erano allevamenti.
Tra il 1881 e il 1900 furono costituiti i primi allevamenti, ma solo dopo la prima guerra mondiale sorsero gli ippodromi di trotto di San Siro (Milano) e Villa Glori (Roma). Nel 1929 si costituì l’Associazione Nazionale Allevatori del Cavallo Trottatore che tanta importanza doveva avere per l’avvenire del trotto in Italia.
Da questo momento il trotto italiano diventa adulto; gli allevamenti furono potenziati con qualitative importazioni, sicché si ebbe prima un incremento quantitativo di prodotti e in un secondo tempo un notevole miglioramento anche della loro qualità: ne è conferma la conquista di numerosi primati europei.
Ed ecco «Mistero», allevato da Orsi Mangelli, nato nel 1940: primo grande cavallo italiano, l’unico indigeno che sia riuscito a vincere il Prix d Amérique a Vincennes. Di non grande statura, di straordinario temperamento, riusciva ad emergere su qualunque distanza. Diventò il trottatore più popolare d’Italia e forse d’Europa. Sostenne 129 corse e, nonostante il logorio dovuto ad una interminabile carriera, fu un riproduttore eccezionale.
Un altro grande trottatore nato in Italia è «Tornese», beniamino degli appassionati, nato nel 1952, allevato dal comm. Sebastiano Manzoni, considerato il più riuscito esperimento dell’incrocio franco-americano. La carriera del grande campione, sauro con criniera e coda chiare, è stata lunga; il nostro cavallo fu sempre impegnato in corse ad alto livello sia in Italia sia all’estero.
Le sue prestazioni in otto anni di attività furono ben 229, numero da record, e la somma totale vinta di lire 341.503.100. «Tornese» uguagliò spesso tempi che prima ottenevano soltanto gli americani. Quando morì, nel 1966, in un allevamento presso Roma, tutti i giornali, anche non esclusivamente sportivi, dettero la notizia ricordando con parole commosse le imprese del biondo leggendario cavallo.
Intorno al 1900 il capitano Caprilli rivoluzionò profondamente l’equitazione spalancando le porte, chiuse da secoli, dei maneggi dove il cavallo era ridotto ad esibizioni da ballerina classica, riproponendoci, invece di uno schiavo ubbidiente, un compagno sportivo, un amico muto ma a modo suo eloquente, che costringe a pensare, a ragionare, pronto a dare aiuto come a riceverne.
Basta guardare qualche vecchia fotografia di cavalieri sul salto prima dell’era caprilliana per rendersi conto del l’enorme cambiamento che vi fu, e che può essere riassunto così: andare con il cavallo, adattandosi a lui, e non contro il cavallo, pretendendo che sia lui ad adattarsi al cavaliere.
Per Caprilli non fu tutto facile: molti capirono le sue idee, ma molti gli furono contrari. Tra il 1911 e il 1920, però, il sistema di Caprilli trionfò, si diffuse anche all’estero, si formarono ottimi cavalieri ed istruttori. Dal 1920 in poi i nostri migliori cavalieri affermarono nel mondo il primato equestre italiano.
Dopo la seconda guerra mondiale i percorsi dei concorsi ippici divennero sempre più complicati, gli ostacoli più larghi e più alti, i cavalli più insanguati e difficili da padroneggiare. Alcuni cavalieri si resero conto che il sistema doveva essere aggiornato per poter affrontare con successo i nuovi percorsi. Bisognava avere il cavallo leggero, in avanti naturalmente, ma anche un cavallo atleta, e per renderlo atleta bisognava fargli fare della ginnastica: ginnasticarlo, come si dice in gergo ippico. Per far ciò si doveva tornare a molti movimenti della scuola.
Chi cercò, su imitazione dei Tedeschi, una sintesi tra equitazione naturale e di scuola fu considerato un traditore dai depositari dei principi caprilliani. E così accadde che l’equitazione italiana subì un’evoluzione del tutto individuale e chi prese questa strada innovatrice lo fece con impaccio, quasi vergognandosene.
Ricordiamo alcuni campioni del periodo fra le due guerre: la minuscola «Crispa», sarda, del maggiore Guido Borsarelli e, so prattutto per la sua storia, «Nasello».
Questo cavallo era adibito al traino dei carri-bagagli al Reggimento Piemonte Reale di Cavalleria, di Pinerolo. Era grigio, un cavallo italiano, di origine sconosciuta. Ne parlarono al maresciallo D’Inzeo come di un cavallo bizzoso, di carattere. Il maresciallo (padre di Piero e Raimondo D’Inzeo) se ne interessò, lo vide e decise di provare a montarlo e a lavorarlo. Il cavallo, dressato con pazienza, fece in poco tempo tali progressi, da diventare, montato in gara dal colonnello Filipponi, uno dei più grandi cavalli da concorso in Europa negli anni trenta.
Tra i cavalli non italiani, ma che trovarono la notorietà per merito di cavalieri italiani, non si può dimenticare «Osoppo» che, montato dall’allora capitano Gutierrez, conquistò il record del mondo in elevazione saltando un ostacolo alto 2 m e 44 cm. Il record resistette fino al 1949. È interessante notare che «Osoppo», cavallo di incredibile potenza, su un normale percorso si dimostrava assolutamente mediocre.
Dopo la seconda guerra mondiale l’equitazione italiana ebbe un nuovo periodo di splendore grazie a tre cavalieri di classe internazionale, considerati universalmente tra i maggiori del mondo.
In questo periodo dobbiamo ricordare due cavalli italiani, grandissimi campioni: «Merano» e «Posillipo». Tutti e due provengono dall’allevamento dei fratelli Morese, appassionati e competenti allevatori. Tutti e due furono montati dallo stesso cavaliere: Raimondo D’Inzeo. È difficile stabilire quale fu il migliore tra questi due cavalli favolosi: forse «Merano» ancor più di «Posillipo», che pure è il cavallo con il quale Raimondo D’Inzeo ha vinto la medaglia d’oro olimpica.
«Merano» nacque nel 1946. Puledro, nessuno gli avrebbe dato un soldo, bruttino com’era. Ma quando Raimondo D’Inzeo lo vide nella tenuta dei Morese fu, come egli assicura, il colpo di fulmine. Era il più disarmonioso tra i puledri che gli furono mostrati, ma egli vide in lui quel certo non so che che lo decise a sceglierlo fra tutti.
Lo lavorò con cura, com’era sua abitudine, aspettandolo pazientemente, senza mai chiedergli nulla che potesse pregiudicare il lavoro fatto, o che potesse indurlo alla ribellione.
Nel 1952 «Merano» era già il cavallo italiano di 6 anni che aveva vinto di più. Ricordiamo il debutto di «Merano» a Piazza di Siena, a Roma, sede del concorso ippico internazionale. Era il Premio Esquilino, una gara riservata ai cavalli che partecipano per la prima volta all’internazionale di Roma. Il percorso era difficile, non c’erano netti.
Era in testa il famoso tedesco Winkler, con «Halla», ma aveva 4 penalità, quando entra Raimondo D’Inzeo con un baio, sconosciuto alla maggior parte degli spettatori: «Merano» appunto; fu un bellissimo percorso, il netto e la vittoria. Quell’anno a Piazza di Siena, «Merano» su 6 gare disputate otteneva tre primi premi individuali, uno in Coppa delle Nazioni, ed un secondo posto.
Dopo di ciò fu offerta a Raimondo D’Inzeo una grossa cifra per il cavallo ed egli, sebbene a malincuore, decise di cederlo. Ma il nuovo proprietario, pur essendo un cavaliere di prim’ordine, non riuscì a mettersi insieme al cavallo e ad ottenere i risultati che si aspettava.
Decise allora di venderlo e stava per accettare le vantaggiose offerte fattegli dai Francesi, quando intervenne la Federazione Italiana che comprò il cavallo e lo ridiede da montare a Raimondo D’Inzeo. Con «Merano» Raimondo D’Inzeo conquistò, alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1956, due medaglie d’argento e, sempre nello stesso anno, ad Aquisgrana, il suo primo titolo di Campione del Mondo, dopo essere stato secondo l’anno precedente.
«Posillipo» nacque invece nel 1950, figlio dello stesso stallone Purosangue che aveva dato «Merano», «Ugolino da Siena», ma di un’altra fattrice: «Veronica». Anche «Posillipo» ricevette un’istruzione dolce ma ferma da Raimondo D’Inzeo e, come il fratello, fu il miglior 6 anni dell’annata.
Si pensi che, mentre «Posillipo» vinse nel 1956 lire 2.043.367, il secondo in classifica, pur essendo montato dal capitano Oppes, cavaliere grandissimo, vinse soltanto lire 299.994! Da allora in poi il sauro di Raimondo D’Inzeo conquistò un premio dietro l’altro in Italia e all’estero.
Con «Posillipo» Raimondo D’Inzeo vinse il titolo individuale alle Olimpiadi di Roma, la medaglia di bronzo nella prova a squadre sia a Roma, dove fu anche il miglior cavallo, sia, quattro anni dopo, a Tokio, e poi tutti i Gran Premi esistenti in Europa e molte Coppe delle Nazioni.
Terminò la sua carriera nel 1966; Raimondo D’Inzeo, alla fine di un campionato, gli fece percorrere un percorso d’addio, tra il silenzio del pubblico che in quel momento rappresentava le migliaia di persone che avevano applaudito, ammirato e amato il cavallo. Quindi Raimondo D’Inzeo lo dissellò per l’ultima volta, mentre il pubblico lo salutava con un lunghissimo applauso.
Riteniamo ora opportuno ricordare brevemente la storia di « The Rock ». « The Rock » non era un cavallo italiano, era irlandese. I fratelli D’Angelo, che spesso andavano in Irlanda in cerca di cavalli, erano stati incaricati da un signore di cercare un cavallo grigio, adatto a portar peso, sereno e tranquillo. E così « The Rock » era arrivato a Roma.
Per lui non ci dovevano più essere le delicate piogge irlandesi, ma il sole e i cieli azzurri italiani. Senonché, nel frattempo, il compratore aveva rinunciato ai suoi sogni equestri. Si interessò al cavallo il generale Morigi, ormai già sulla sessantina, ma sempre validissimo cavaliere.
L’animale dimostrò subito che per lui saltare non era un problema e sbalordì chi non lo aveva mai visto, vincendo con facilità e piazzandosi in varie occasioni. Con Morigi in sella, all’Arena di Milano, « The Rock » vinse la sua prima gara di potenza su un muro di quasi due metri.
Si fece avanti, allora, Costanzo D’Inzeo, grande istruttore e padre di Piero e di Raimondo. Egli desiderava che, come Raimondo aveva un grande campione, <• Merano », anche Piero potesse disporre di un cavallo eccezionale. E così acquistò « The Rock ».
Piero D’Inzeo lavorò con passione il cavallo tendendo ad ammorbidire le sue iniziali attitudini di potente ma rigido saltatore, fino a renderlo plastico, veloce, utile ed efficace in ogni tipo di gara. « The Rock » divenne presto la bandiera dello sport equestre italiano; in 13 anni di attività vinse 172 volte e totalizzò 95 secondi posti.
In questi risultati sono compresi: la medaglia d’argento individuale e di bronzo a squadre alle Olimpiadi di Roma nel 1960, un secondo posto al campionato europeo di Aquisgrana nel 1959, 48 vittorie in Gran Premi delle Nazioni, due vittorie nel King George, a Londra.
Acquistato dalla Federazione Italiana, fu poi assegnato a Graziano Mancinelli che lo montò fino alla fine. Morì a 19 anni a Passo Corese.
Tanti sono i cavalli che vorremmo ancora ricordare oltre a quelli nominati: i molti cavalli nati in Italia e divenuti famosi tra gli appassionati di tutto il mondo, come «Pagoro», «Mirtillo», «Litargirio», «Canio», «Ussaro» e tanti altri; e i molti cavalli non italiani ma che, lavorati e montati da Italiani, sono divenuti campioni indimenticabili, come «Destino», «His Excellency», «Sun Beam», «The Quiet Man», «Uruguay», «Bellevue». Ma di uno non si può tacere: una cavalla, «Rockette».
Era sorella piena di «The Rock» e fu importata da Osvaldo Rivolta, grande commerciante milanese di cavalli. Rivolta la diede da montare a Graziano Mancinelli, figlio del capo scuderia della scuola di Roma, e che egli aveva preso con sé quando aveva già mostrato doti non comuni di cavaliere sotto la guida di quell’ottimo istruttore che fu il colonnello Chiantia.
Graziano, dunque, era passato alle dipendenze di Rivolta, ma in breve tempo diventò per lui quasi un figlio adottivo. «Rockette» era sorella di «The Rock», ma grande la metà. Con «Rockette» Graziano Mancinelli vinse tutto: campionato europeo. Coppa delle Nazioni, fu capolista della classifica italiana del 1960; conseguì il titolo di miglior sportivo dell’anno. Non partecipò ad Olimpiadi perché allora era considerato professionista. Le avrebbe sostenute con un altro grigio, l’irlandese «Ambassador», nel 1972 a Monaco, conquistando la medaglia d’oro individuale.