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Appunti di viaggio travel blogger Giacomo Castelvetro

Con il Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano, composto e ricomposto a più riprese nel corso del 1614 da un esule nostalgico – Giacomo Castelvetro – in un sontuoso palazzo londinese, si passa dalle ruvide pagine dei « pratici » alla prosa colta di un letterato incline a trasfigurare le umili cose quotidiane con vibrazioni di tenerezza e di rimpianto.

Rimasto inedito fino ad oggi, questo minuscolo capolavoro gastronomico-sentimentale riemerge dalle vecchie carte dei codici42 con la freschezza gentile di quelle insalatine primaverili di « mischianze », che tra le brume di Londra l’autore ricordava con struggimento quale dono delicato di una « tutta ridente stagione », che si identificava per lui con i due più cari beni perduti: l’Italia e la gioventù.

Il Castelvetro era nato a Modena, all’ombra dell’aquila estense, da nobile famiglia, il 25 marzo 1546; suo padre Niccolò, banchiere danaroso, era fratello maggiore del celebre Ludovico (1505-1571), critico e polemista di vaglia; nobile anche la madre, che fu Liberata Tassoni.

In quella casa le idee della Riforma protestante dovettero penetrare segretamente, per tramiti mal decifrabili, annidandosi nel profondo delle coscienze. Duramente ferito dalle censure di Ludovico, Annibal Caro non aveva esitato a replicare trattandolo da « empio, nemico di Dio e degli uomini » ; di eguale parere fu il tribunale dell’Inquisizione romana, che nel novembre 1560 lo condannò con durissima sentenza, che non ebbe seguito solo perché l’imputato s’era dato tempestivamente alla fuga.

Il 28 marzo del ’64, in gran segreto, nascosti « sopra un mulo, in due ceste », Giacomo e il fratello maggiore Lelio lasciarono Modena per raggiungere a Ginevra l’ammirato zio. Per sette anni il giovinetto visse al suo fianco, dividendone le tumultuose traversie e seguendolo a Lione (1567), a Basilea (dove al cadere del ’68 lo vediamo iscritto all’Università), a Vienna (dove nel ’70 Ludovico dedicò all’imperatore Massimiliano il suo immane commento alla Poetica d’Aristotele) e finalmente a Chiavenna, tappa ultima di quel vagabondaggio, perché lo zio vi si spense il 21 febbraio 1571.

Rimasto solo, Giacomo ritornò a Basilea, deciso a impratichirsi nel commercio librario; scarsi sussidi poteva offrirgli la famiglia, se il testamento paterno del 7 gennaio 1571 gli riserba non più di sette scudi al mese, perché « al presente è vagabondo », e stabilisce che potrà godere la sua parte di eredità solo se verrà ad aprir casa in Modena.

Nel ’72 lo troviamo a Ròtteln nel Baden, dove s’è ritirato per imparare il tedesco, ma due anni dopo sbarca in Inghilterra, assunto quale maestro d’italiano e di buone creanze da sir Roger North, che gli affidò il compito di rifinire l’educazione del suo primogenito John, allora poco più che ventenne.

Col suo pupillo il Castelvetro partì nell’estate del 1575 alla volta della patria d’ogni gentilezza: l’Italia; il maestro avrebbe tutelato il discepolo dalle insidie delle male femmine e dei ciurmatori, questi, con la sua nazionalità e il suo rango, avrebbe fatto da scudo al suo mentore contro le vessazioni inquisitorie. Per la via di Strasburgo, Basilea, Chiavenna, Bergamo e Brescia, nel dicembre i due giunsero a Padova; come il viaggio seguitasse non ci è dato sapere, ma certo si è che nel novembre del ’77 il North rimpatriò da solo, perché da parecchi mesi il Castelvetro lo aveva lasciato e, con arrischiata mossa, era tornato a Modena.

Non si erano intiepidite le sue convinzioni religiose, ma il bisogno s’era fatto stringente: il 7 febbraio 1576 s’era spento suo padre, dopo aver confermato con un secondo testamento (15 gennaio ’74) le disposizioni drastiche del primo. Per raccogliere l’eredità il rimpatrio era necessario e in patria lo chiamavano anche le preziose carte di Ludovico, ch’erano state raccolte da un altro zio, Gian Maria.

Il primo documento che attesti la presenza di Giacomo a Modena è del 26 agosto 1577; l’anno dopo, tra l’aprile e il maggio, lo troviamo intento a trascrivere scritture inedite di Ludovico; allora forse invalse l’uso di designarlo come Giacomo il Vecchio per distinguerlo da un omonimo e oscuro cugino (1553-1593), figlio di Gian Maria. Benché stesse quieto, l’Inquisizione gli teneva gli occhi addosso: bastò che si facesse avanti il solito denunciante anonimo, accusandolo di aver scritto ai fratelli, dalla terra d’esilio, invitandoli a raggiungerlo oltr’Alpe, dove si praticava la fede vera, perché subito venisse arrestato e processato.

Si salvò, come tanti, con una ritrattazione estorta e insincera: non abbiamo gli atti del suo processo, ma certo dovette piegarsi all’abiura, perché un documento molto più tardo parla di lui come di un « relasso », ricaduto cioè negli errori un tempo ripudiati. Ferito nel profondo, convinto ormai che quella non fosse più terra ospitale per una libera coscienza, si preparò ad un nuovo espatrio: il 19 marzo 1579 vendette le sue terre per disporre di denaro liquido; il 18 novembre firmò il testamento; poche settimane dopo varcò le Alpi e, dopo una sosta di qualche mese a Basilea, rimise piede in Inghilterra, dove lo attirava una vaga speranza di venir assunto quale maestro d’Italiano da Giacomo Stuart, re di Scozia.

Sulle prime ebbe a Londra accoglienze scoraggianti: taluni lo sospettavano di essere un pericoloso antitrinitario, altri, all’estremo opposto, un gesuita travestito. Presto tuttavia trovò autorevoli protettori e finì per restare a Londra una dozzina d’anni, in posizione distinta fra i non pochi Italiani che nei palazzi inglesi venivano accolti quali maestri di lingua, di buone maniere e di sottigliezza politica, ricercati e vezzeggiati sull’onda della moda e dell’ascendente culturale del nostro tardo Rinascimento, anche se molti lodatori del severo costume antico vedevano in loro dei corruttori e Roger Ascham poteva proclamare che un « Englese italianato è un diavolo incarnato ».

In quegli anni l’opera svolta dal Castelvetro per la diffusione della cultura italiana -in Inghilterra ebbe un rilievo senza eguali. Valendosi soprattutto dell’opera di John Wolf, un tipografo intraprendente che aveva imparato il mestiere a Firenze nell’officina dei Giunti e che dall’81 aperse a Londra un’attiva bottega specializzandosi in testi italiani esecrati per immoralità e avidamente ricercati dai lettori, l’esule curò o promosse edizioni del Machiavelli (5 tomi fra il 1584 e il 1588), dell’Aretino (1588), del Pastor fido del Guarini e dell’Aminta tassesca (1591), dell’Historia della China di Juan Gonzales de Mendoza (1587), del trattato di crittografia del Della Porta (1591), financo di saggi di giovani poeti sconosciuti, come la Solymeidos di Scipione Gentili (1584) e la Columbeidos del ventenne romano Giulio Cesare Stella (1585).

Da Londra si allontanò solo saltuariamente per esigenze di lavoro : ad esempio, nel settembre dell’86 lo troviamo a Francoforte per la grande fiera libraria, ma anche per incontrarvi un altro esule italiano anglicizzato, Grazio Pallavicino, banchiere e agente segreto. Forse anche il nostro Giacomo cominciava a mettere al servizio della nuova patria la vocazione italiana per l’intrigo e la sua larga esperienza cosmopolita.

Da Francoforte passò a Basilea, dove i primi dell’87 si accasò – memore del precetto « moglie e buoi… » -con una matura vedova bolognese, Isotta de’ Canonici. Primo marito di costei era stato un distinto medico e filosofo svizzero, Thomas Lieber (1524-1583), noto sotto il nome grecizzato di « Erastus », che s’era laureato a Bologna, soggiornandovi per un decennio dal ’44 in poi e prendendovi moglie; più tardi Erasto divenne professore a Heldelberg, ma nell’80 ne era stato clamorosamente espulso per le sue idee tolleranti in fatto di sanzioni ecclesiastiche e aveva trovato rifugio a Basilea, occupandovi la cattedra di filosofia morale.

Entrato in possesso, iure hereditarlo, delle carte dello scomparso, il Castelvetro ne fece stampare a Londra (1589), con la falsa data di Poschiavo, il battagliero trattato sull’invalidità della scomunica e l’anno dopo procurò a Francoforte la pubblicazione dei suoi Varia opuscula medica.

Intanto era tornato di attualità il vecchio progetto scozzese: nell’agosto del ’92 Giacomo è a Edimburgo a postulare l’incarico di maestro d’italiano del re e della sua consorte Anna di Danimarca. Stavolta ebbe successo, perché là lo troviamo nel maggio del ’93, intento a compiere esperimenti di alchimia, e là il 7 marzo 1594 la povera Isotta dettò, in punto di morte, le sue ultime volontà.

Rimasto vedovo, certo valendosi di autorevoli commendatizie della regina, Castelvetro si trasferì quell’anno stesso in Danimarca: lo cogliamo nell’ottobre in viaggio nell’isola di Seeland e, per tutto il ’95, sistemato nell’« umida e fredda » Copenhagen, intento a raccogliere una collezione di scritture politiche italiane inedite, a tentare esperimenti di frutticultura, a frequentare la corte.

Neppure là fece lungo soggiorno, perché al cadere di gennaio del ’96 eccolo in Svezia al servizio del principe Carlo, il futuro usurpatore della corona. Tra Stoccolma e Nykòping resse a quel duro clima per due anni e mezzo, allettato fors’anche dalla duplice paga, perchè una lista di agenti segreti inglesi del gennaio 1598 registra il suo nome fra i confidenti di sir Robert Cecil.

Nel maggio di quell’anno trovò la scusa buona per partirsene: quella di venire in Italia a fare incetta di cose belle e rare. Per strada se la prese con comodo, impiegando nove mesi nel viaggio; il suo Album amicorum, che inizia da tale anno, rivela che sostò in Francia, in Svizzera e in Germania; nel marzo del ’99 lo si incontra a Stoccarda, interessato in affari librari; solo al cadere dell’anno eccolo finalmente a Venezia, dimentico al tutto della Svezia e del suo principe, impiegato in Marzaria nella fiorente officina editoriale del senese Giovan Battista Ciotti.

Per dodici anni quella fu la sua nuova vita, in una città libera e cosmopolita, intento ad un lavoro che gli era congeniale: curò così le edizioni più disparate, dalle rime del Grillo o del Marino fino agli scritti politici (allestiti ma non pubblicati) del Campanella. L’Inquisizione non lo perdeva di vista, ma la sua cauta condotta e il fatto che fosse tra i protetti dell’ambasciata inglese gli risparmiarono grossi fastidi; non venne molestato neppure quando suo fratello Lelio, il 7 dicembre 1609, come eretico relasso, venne bruciato vivo a Mantova.

A detta del Sarpi invece, che ne scriveva nel 1610 a un amico francese, Castelvetro era un uomo onesto, ma un po’ troppo imprudente. Sullo scorcio di quell’anno infatti un Giampaolo da Lucca, carcerato nel Sant’Uffizio di Venezia, lo denunciò come eretico. Venne ricercato a lungo, benché vivesse sotto gli occhi di tutti in casa del Ciotti. Fu catturato infine il 4 settembre 1611 e subito fu chiaro che era in pericolo mortale (il suo accusatore, il 7 ottobre, venne affogato in laguna).

Subito l’ambasciatore inglese, che era il dotto e brillante Dudley Carleton, si mosse con energia, dichiarando che l’uomo era al suo servizio ed era stato.maestro del suo re (dal 1603 Giacomo di Scozia era divenuto re d’Inghilterra), il quale avrebbe considerato quell’arresto un affronto personale. Con gran scorno degli inquisitori, il Senato ordinò la pronta scarcerazione dell’imputato, col patto che lasciasse subito Venezia. Era restato in cella sei giorni soltanto. Scosso per la drammatica esperienza subita e per il rischio mortale, Giacomo trovò un primo rifugio a Chiavenna, dove erano rimaste antiche carte dello zio; vi rimase in raccoglimento studioso fino al maggio del 1612, poi mosse alla volta di Parigi, dove sostò tra l’agosto e il novembre, e finalmente raggiunse il suo unico porto sicuro, l’ultimo del suo burrascoso pellegrinaggio: l’Inghilterra.

Era ormai in là con gli anni e pieno di acciacchi; gusti e mode mutavano rapidamente; presto finì per sentirsi un superato. Un corso d’italiano affidatogli a Cambridge nel secondo semestre del 1613 non ebbe seguito (ma vi mangiò agli ultimi d’ottobre delle fragole squisite) ; un secondo tentativo in tal senso messo in atto ad Oxford ai primi del 1614 si risolse in un insuccesso.

Buon per lui che un parvenu ricchissimo e influente, il segretario del principe di Galles Adam Newton, lo accogliesse in casa propria, dapprima nel palazzo londinese di Eltham Park e poi, dall’autunno del 1614, nella nuova e sontuosa residenza che s’era fatto da poco erigere a Charlton nel Kent. Visse così il suo solitario tramonto, ripagando l’ospitalità con la sua conversazione arguta e i ricordi di una vita avventurosa.

Orti e giardini restavano la sua passione: una delle sue ultime lettere è diretta da Londra il 19 dicembre 1615 ad un amico veneziano che dovrebbe procurargli dei semi rari; l’ultima sua testimonianza è del 2 marzo 1616 ed è un lamento per i molti malanni, la gotta che gli impedisce di camminare, la povertà. Morì poco dopo, certo in quell’anno, solo com’era quasi sempre vissuto43.

Malgrado un’intera esistenza trascorsa fra i libri – studente di umanità, docente d’italiano, revisore e consulente editoriale – poco ci resta di sua mano : qualche dedicatoria convenzionale, qualche lettera privata, e il solitario e delicato frutto tardivo del Brieve racconto, che qui vede per la prima volta la luce. Si tratta di una rassegna della gastronomia italiana destinata all’alta società inglese, fìor fiore d’una « nobile nazione » e d’un « fertilissimo reame », ma che si ciba di carnaccia di montone cotta nel suo grasso.

Da mezzo secolo il paese s’è un po’ dirozzato, grazie agli esuli fiamminghi, valloni e francesi scampati alle stragi delle guerre di religione ; ma trascura ancora molte colture, non sa che siano giuggiole o castagne, non cucina funghi e, anche se gusta pere succose, nespole, indivia bianca, piselli, fragole in due stagioni e carciofi tutto l’anno, resta pur sempre oppresso – in fatto di arte culinaria – da « trascuraggine » e « ignoranza ».

Di contro a questa provincia barbarica sta la « civile Italia », educata ai gusti più ricercati, esperta d’ogni sapore e manicaretto. Ma Castelvetro detesta pasticceri e beccai, viene da un paese caldo che appetisce « più erbaggi e frutti che carni » e cerca i sapori « agretti », l’uva spina, il limone, l’arancio forte, il succo d’uva acerba, l’agresto.

L’immagine della sua terra, che egli evoca nell’isola straniera, è quella di una delicatezza fresca, di una varietà fantasiosa, di un’abbondanza festevole ma non opulenta. In Italia i viandanti si cibano di frutti colti lungo la via, possono spiccare grappoli dai filari e si dissetano con vino a profusione, meno caro della birra in Inghilterra. Ma l’Italia è anche un paese sovrapopolato e parsimonioso, che utilizza, e nobilita ogni più dimessa risorsa commestibile: frutti umili come le giuggiole, bacche aspre di corniolo, duri triboli delle ninfee, semi di zucca e di lupino.

Sull’onda del ricordo nostalgico questa patria remota si colora d’una tenera luce primaverile; le sue mense offrono vivande semplici ma squisite, diverse col volger delle stagioni, doni sempre rinnovati di una natura benigna: sono germogli, radici, tenere cime, fiori, petali, « bottoncelli », fruttini appena formati, carciofi grossi come noci, zucche non più grandi d’un’oliva.

Questa ghiotta Arcadia è descritta con stile semplice, parlato, sconnesso, asintattico, che vi mescola proverbi, ricordi personali, burle facete, aneddoti, affettuosi quadretti domestici. E una golosa gioia di vivere sfavilla in ogni pagina, velata appena dalla tristezza degli anni e da quella dell’esilio.
LUIGI FIRPO

Codice 42.

Nell’ozio forzato della vecchiaia il Castelvetro riscrisse più volte il trattatello e ne diffuse qualche esemplare a penna tra personaggi di rango. Tre copie d’autore, rimaste alla sua morte in casa di sir Adam Newton, che lo ospitava, passarono poi attraverso gli eredi di quello al Trinity College di Cambridge: la più antica, datata 14 giugno 1614, è nel cod. £..14.19; le altre due, rispettivamente del 28 giugno e del 28 settembre, sono nel cod. R.3-44. Altri due esemplari si conservano nel British Muscum (cod. Additions 9282 e Sloane 912), uno nel Naturai History Museum di South Kensington, un ultimo nella collezione del Duca di Bedford a Woburn Sands. Nei successivi rifacimenti l’autore introdusse via-via alcune aggiunte, ma cincischio sempre più l’espressione, inseguendo moduli letterari convenzionali, sicché il testo poco vi guadagna nella sostanza e invece perde assai in fatto di spontaneità e vivezza. Ho prescelto perciò per la presente edizione il dettato più antico, ricorrendo agli altri Ms. solo per emendarne gli errori materiali e colmare qualche breve lacuna.

Codice 43

Per una bibliografia essenziale si veda: G. FONTANINI, Biblioteca dell’eloquenza italiana con le annotazioni di Apostolo Zeno, Venezia, 1753, vol. I, pp. 418-419; voi. II, pp. 31-33; G. TIRABOSCHI, Biblioteca modenese, Modena, vol. I, 1781, pp. 431-434; A. PLONCHER, Della vita e delle opere di Ludovico Castelvetro, Conegliano, 1879, pp. 85-89; T. SANDONNINI, Ludovico Castelvetro e la sua famiglia, Bologna, 1882, pp. 236-268; S. E. DIMSEY, Giacopo Castelvetro, «The Modern Language Review», XXIII, 1928, pp. 424-431; H. TRIESEL, Die Handschrìften des Giacopo Castelvetro in der dietrichstein schen Fideikommiss-bibliothek zu Nikolsburg, « Zeitschrift des deutschcn Vereins fùr die Geschichte Mahrens und Schlesien », XXXI, 1929, pp. 129-164; K. T. BUTLER, An Italian’s messale to England in 1614: «Eat more fruii and vegetables», «Italian Studies», II, 1938, pp. 1-18; E. ROSEMBERG, Giacopo Castelvetro, Italian publisher in Elisabethan London and his patrons, «The Huntington Library Quarterly», VI, 1943, pp. 119-148; K. T. BUTLER, Giacomo Castelvetro (1546-1616), «Italian Studies», V, 1950, pp. 1-42; L. STONE, An Elizabethan: sir Horatio Pallavicino, Oxford, 1956, p. 329; H. G. DICK, A Renaissance expatriate, Giacomo Castelvetro thè Elder, « Italian Quarterly », VII, 1963, pp. 3-19; A. D. SCAGLIONE, Giacomo Castelvetro e i conclavi dei papi del Rinascimento, « Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance », XXVIII, 1966, pp. 141-149.

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